Quali barbari e quali romani?

di Tommaso Pistoni

Brevissimi spunti sulla percezione etnica dei secondi

Noi inventiamo noi stessi come unità in questo mondo di immagini da noi stessi creato.

F. NIETZSCHE (citato da F. REMOTTI, Contro l’identità, Bari, Laterza, 1996.)

Il presente articolo prende le mosse da un saggio del dott. Marco Rocco, “La percezione delle identità etniche barbariche tra antico e tardoantico”, comparso nel 2011 all’interno della preziosa Rivista Storica dell’Antichità (Pàtron Editore, XLI, 2011). Isola sicura, familiare in un mondo attraversato da plurime slavine di esuli, quella dell’identità è, oggidì, questione cogente.

Non si tenterà in questa sede di formulare una definizione convincente ed esaustiva del concetto di identità per come esso viene percepito (almeno dall’opinione pubblica italiana), e soprattutto utilizzato nei discorsi prodotti dalla politica nostrana. E questo perché la riflessione che qui si intende sottoporre alla ratio dei nostri lettori ha l’identità solo come sfondo: interessa qui riportare in forma semplificata e accessibile la tesi e i connessi argomenti apportati da Marco Rocco sulla percezione, trasparente in certa letteratura latina, delle cosiddette identità etniche barbariche; percezione che si vuole – sembra superfluo ribadirlo – culturalmente determinata nonché preimpostata nella particolare Weltanschauung (“visione, intuizione, comprensione del mondo”) propria dell’élite dirigente tardo imperiale: una visione/interpretazione del mondo, certamente plasmata da secoli empirismo relazionale con quegli altri, che, d’accordo con i legislatori tardo antichi chiamiamo externi.

Sia l’Impero Romano un palcoscenico, (nel teatro del tempo) e i suoi abitanti attori dagli svariati ruoli; i riflettori sono proiettati sulla scena e molte delle comparse parlano latino e greco (o qualcosa che assomiglia a ciò che noi moderni intendiamo con latino e greco). Un’idea radicatissima nella comune rappresentazione di questo strano spettacolo vorrebbe, che ad un certo punto della recita, salgano sul palco gruppi di bidelli, di addetti alla scenografia come alle luci, maschere, musicisti, truccatori, parrucchieri, pittori. Insomma: ecco l’insieme dei mestieri, diremmo oggi, “esecutivi” i quali, con il loro silenzioso lavoro, permettono a qualunque teatro di funzionare e a qualunque spettacolo di andare in scena. Ecco che di punto in bianco (siamo alla metà del III secolo) tutta questa gente, inizia a salire sul palco, sotto le luci. E lì, sul palco e sotto le luci, rimane.

Potremmo dire, restando a cavallo della metafora, che quando Rocco come altri, studiano la percezione delle identità etniche barbariche nella tarda antichità, non si stiano tanto chiedendo (e, s’intende, non è poco) da chi fosse composta, che cosa volesse, o da dove venisse la fauna di persone, che un bel giorno decise di salire sulla scena a recitare, lanciare schiamazzi o fare a botte con gli increduli attori; quanto, piuttosto, possiamo dire che Rocco (et alii) si stiano interrogando su come la regia del suddetto spettacolo, vide, percepì questa massa di “intrusi”: e quindi reagì, prese decisioni intorno alla apparente novità che qualcuno (e si parla di molta gente), rimasto fuori della scena fino ad un certo momento, posseduto da una specie di furore recitativo, decise di salire sul palco e di occuparlo.

E questo equivale al tentativo di scrutare i barbari con gli occhi della dirigency romana tardo imperiale, oltre che a trarre debite conclusioni in merito, basandosi sulla lettura delle tracce pervenuteci. Quali furono, dunque, le categorie e gli schemi adottati dalle elite romane per discernere, leggere, inquadrare i gruppi di esseri umani che, da externi, senza soluzione di continuità, fecero la loro comparsa, svolsero ruolo d’attori, nella dimensione degli eventi registrati dagli scrittori greci e latini? Quale fu, se ci fu, il valore riconosciuto dai Romani all’etnicità? – termine che qui allude al sentimento di appartenenza che assumiamo come ragione dell’identità: il riconoscersi parte di un gruppo avente tratti (sospendiamo qualunque specificazione) in comune.

Illustrazione di Igor Dzis (2007)
tratta da Storie Romane

Di seguito riportiamo il tentativo di risposta (e la posizione) di Rocco circa i due quesiti di cui sopra. Prendendo le mosse da un precedente contributo del tardo antichista Michael Kulikowski (cfr. Bibliografia), Rocco concentra la sua analisi sul tema del sotteso e irrinunciabile pragmatismo insito nel modo romano di guardare il barbaro: l’interesse riposto dal romano nel rapporto con il non-romano sussume l’inequivocabile fine utilitaristico del dominio. Per questa stessa ragione, il milieu culturale entro il quale prese forma, fissandosi, l’idea romana del barbaro (sia esso Gallo, Germano, Scita etc.) è quello militare, degli eserciti romani (dia-cronicamente intesi): e, in quanto pragmatica, quella di barbaro, è senza dubbio, un’idea che nell’immaginario dell’élite romana appare sistematicamente connotata dalle coordinate etnografiche di impronta greco-scientifica. E, in particolare, appare connotata da due modelli teorici fondamentali e cioè:

1. la fortunatissima teoria dei climi, già utilizzata dallo scrittore Posidonio di Apamea nel suo excursus sui Celti, e congiungente la “sostanza” di un popolo con la configurazione climatica del territorio da esso abitato, nell’equazione natura = cultura;

2. la teoria della distanza dalle popolazioni civilizzate: secondo lo schema mentale che vorrebbe lo spazio mediterraneo, romanamente e grecamente terraformato e colonizzato, il pinnacolo dell’ecumene umana da cui, a mano a mano che vi ci si allontani, alle barbarie andrebbero aggiunte, in crescente misura, desolazione e ferinità.

Questi “sottintesi” teoretici coinciderebbero con le chiavi di lettura fondamentali adottate dai leader romani per interfacciarsi con il mondo esterno, con i “limiti” amministrativi dell’impero. Non vi fu, dunque, interesse etnografico scientificamente motivato da parte degli osservatori quiriti – fatta salva la genuina curiosità, attrazione e fame di esotico e di “lontano” senz’altro palpabile in taluna letteratura; curiosità cui, almeno in un Tacito o in un Salviano, va coniugata con l’intento moralistico costruito sulla migliore gradazione di purezza originaria riscontrabile nel paragone romani/germani – ma vi fu, senza dubbio, interesse geostrategico e amministrativo.

Da questi semplici assunti discenderebbero le motivazioni di una identificazione e nomenclatura dei popoli barbari: all’autorità romana serviva etichettare queste genti per e nell’ottica di governarle; per segnare sulla cartina delle cornici operative entro le quali tessere legami, firmare contratti, scambiare (e con vantaggio per se) uomini e beni. Questo, dunque il significato e, soprattutto, la funzione di termini come ‘Franchi’, ‘Alamanni’, ‘Goti’ etc.: ad un tempo aggregati-umani di non-Romani giuridicamente distinti dai Romani, e bersagli d’azione politica/militare definiti (come nel gioco delle freccette).

Nei rapporti con l’impero, barbaro è colui che resta al di fuori (è externo) della lex romana e, l’essere romano, equivale ad obbedire alle leggi romane. Etnicità e annessa identità, dunque, che nulla hanno a che vedere col sangue, la terra, l’aver letto Manzoni in seconda superiore, o un qualche fumoso afflato dell’anima: l’essere Romano e il non esserlo continua a sembrarci questione di giurisprudenza come di comportamento e, nella fattispecie, di un comportamento che, con Giovanni Brizzi, qualifichiamo come virtuoso, dovuto alla uirtus, valore morale identificabile con l’ancestrale munus serviano oggettivatosi nel servizio delle armi prestato dal civis allo “Stato Romano”.

Il sarcofago “Grande Ludovisi” (III sec.),
Roma, palazzo Altemps, © José Luiz Bernardes Ribeiro / CC BY-SA 4.0

Bibliografia

  • M. ROCCO, La percezione delle identità etniche barbariche tra antico e tardo antico, in Rivista Storica dell’antichità, Pàtron, n. XLI, anno 2011.
  • F. REMOTTI, L’ossessione identitaria, Laterza, Bari, 2010.
  • ID, Contro l’identità, Bari, Laterza, 1996.
  • M. KULIKOWSKI, Nation versus Army: A Necessary Contrast?, in Andrew GILLET (a cura di), On Barbarian Identity. Critical approaches to ethnicity in the early middle ages, Turnhout, 2002.

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